Intelligenze naturali

In un seminario di fotografia che ho tenuto qualche anno fa, dissi che con l’evoluzione degli automatismi nelle fotocamere moderne e sopratutto con il sempre maggiore perfezionamento dei software di gestione dell’immagine, era molto difficile sbagliare una foto. Luminosità, contrasto, colore, sono perfettamente gestiti automaticamente. Oramai al fotografo era rimasto solo la scelta del soggetto e della composizione che è un aspetto importante dell’immagine. Qualche tempo dopo è uscito un software per computer, basato su intelligenza artificiale, che taglia e compone un’immagine automaticamente, facendo riferimento a un database di milioni di immagini d’archivio ben composte, secondo note regole teoriche. Lo sviluppo dei software di ultima generazione si basa oramai prevalentemente su intelligenze artificiali che in certi casi possono sicuramente aiutare l’editing finale dell’immagine ma nella maggior parte dei casi sono pericolose. Non per la salute. Per la creatività.
Una volta fatta una foto, paesaggio, ritratto, particolare, la si butta dentro al software e questo mette a disposizione infinite possibilità di elaborazione, basate su algoritmi che lavorano su milioni di immagini simili fatte da altri nel corso della storia della fotografia. Fatte da altri fotografi. Tu puoi scegliere quale di queste possibilità di elaborazione ti piace di più e applicarla alla tua foto. Poi puoi anche modificare qualche parametro, ma nella maggior parte dei casi il fotografo oggi non sa neppure come funzionano effettivamente gli strumenti che ha a disposizione. Tutto è gestito da intelligenze artificiali, di altri.

L’unica cosa rimasta ad appannaggio dell’eventuale talento del fotografo, a quanto sembra è la scelta del soggetto, in particolare quando si tratta di un ritratto. Ben venga la possibilità di fotografare in condizioni di luce che sarebbero state impossibili anni fa, ben vengano le straordinarie capacità di messa a fuoco delle fotocamere moderne e la raffica di scatti al secondo che ti fa cogliere il momento e la giusta espressione. Ma il decidere “chi” fotografare, “come” e “perché”, ecco, quello dipende ancora dal fotografo, dalla sua capacità di capire quando un volto racconta.

In un film su Rembrandt degli anni trenta, il pittore oramai vecchio e in disgrazia, senza neppure soldi per mangiare, incontra al porto un vecchio barbone e rimane fulminato, “Che viso, che viso! Guardalo…” dice a un’amico,  “è Re Salomone!” E si fa prestare qualche moneta da dare al barbone per permettergli di fargli un ritratto. Un volto in mezzo a tanti, uno solo. Perché proprio quello? Nessun motivo razionale. Se ci fosse, oggi, le intelligenze artificiali lo avrebbero già fatto proprio segnalando con un bip ogni viso ritenuto “interessante”. Si tratta di altro che in questa trattazione ci porterebbe lontano.

Quando un buon fotografo incontra un viso come quello, (ma anche un albero, un fiore) si cerca di instaurare un contatto, una relazione, si cerca di conoscere chi si ha di fronte, e ci si fa conoscere. Si parla dei propri reciproci interessi, si scambia. Poi, solo poi, si fotografa; cercando di cogliere quel momento, quel gesto, quell’espressione (anche di un albero, di un fiore) che rendano onore e merito, nel miglior modo possibile, alla specificità della persona, dell’essere che si ha di fronte; alla sua unicità. E il modo migliore di rendergli onore per quel momento di intimità che viene donato, è mettere in gioco la propria unicità, non lasciando a “intelligenti meccanismi artificiali” il compito di gestire e manipolare un dono che viene da un essere umano. Ma anche da un albero, un fiore, un sasso.

Tonino Mosconi

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